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Indice

 

Relationship between complaints and quality of care in New Zeland: a descriptive analysis of complaints and non complaints following adverse events

A cura di Claudio Bianchin

Sensivity of routine system for reporting patient safety incidents in an NHS hospital : retrospective patient case note review

A cura di Claudio Bianchin

Surgical adverse outcomes and patients’ evalutation of quality of care: inherent risk or reduced quality

A cura di Claudio Bianchin

Measures of process defects and waste in surgical pathology as a basis for quality improvement initiatives

A cura di Claudio Bianchin

Clinical impact and frequency of anatomic pathology errors in cancer diagnoses

A cura di Claudio Bianchin

Relationship between patients complaints and surgical complication

A cura di Claudio Bianchin

Patient safety and patient error

A cura di Renata De Candido

Medial Malpractice

A cura di Claudio Bianchin

“Patients Complaints and Malpractice Risk”

A cura di Claudio Bianchin

Adverse events and near miss reporting in the NHS

A cura di Claudio Bianchin

S.ystematic Review: impact of heath information technology on the quality, efficienzy and costs of medical care

A cura di Claudio Bianchin

“To err is human” report and patient safety literature.

A cura di Claudio Bianchin


Quality of care is associated with survival in vulnerable older patients

A cura di Claudio Bianchin

Systematic review: effects of resident work hours on patients safety.

A cura di Claudio Bianchin

Persisting Problem in Disclosing Medical Error

A cura di Claudio Bianchin

Garantire la sicurezza di gruppi particolari di pazienti

A cura di Renata De Candido

A preliminary taxonomy of medical errors in family practice.

A cura di Claudio Bianchin

 

 

 

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Relationship between complaints and quality of care in New Zeland: a descriptive analysis of complaints and non complaints following adverse events

MM Bismark; TA Brennan, RJ Paterson, PB Davis, DM Studdert.. Qual Saf Health Care 2006; 15:17-22.

A cura di Claudio Bianchin

Lo studio si pone il problema di verificare quanti e quali pazienti che sono andati incontro ad un evento avverso espongono un reclamo verso il medico o la struttura sanitaria. A tal fine vengono incrociati i dati relativi allo New Zeland Quality of Healthcare Study (NZQHS), tipica ricerca di individuazione degli eventi avversi tramite la Chart Review, con la banca dati del reclami esposti ad un difensore civico indipendente, the Health and Disability Commissioner (HDC), relativamente  agli stessi ospedali ed allo stesso anno (1998).

Tale incrocio ha evidenziato che raramente i pazienti ritenuti dai revisori oggetto di eventi avversi hanno contestualmente avanzato reclami (0.4%); anche se questa percentuale si innalza sensibilmente se prendiamo in considerazione  la sottoclasse di chi ha subito conseguenze gravi ed evitabili (4%). Importante invece la porzione dei reclamanti (2/3) che hanno subito un evento avverso, di cui l’80% era considerato prevenibile ed il 60% aveva comportato gravi lesioni permanenti. Nonostante i medici siano diffidenti  circa la ragionevolezza  di queste contestazioni, questi dati rifiutano la convinzione che tale forma di manifestazione di insoddisfazione dei pazienti sulla qualità delle cure siano senza fondamento.

I reclami rappresentano comunque  solo una piccola minoranza tra quelli che sarebbero stati sensatamente giustificati e potenzialmente avanzabili in seguito ad  eventi avversi. Le spiegazione di questo “tip of the iceberg phenomenon” possono essere diverse:

- i pazienti spesso non si accorgono dell’evento avverso,  specie quando è ben difficile distinguerlo nell’andamento complesso di una importante malattia;

-  talora non  sono a conoscenza dell’opportunità di contestare l’evento e a chi;

-  oppure lo sanno  ma, nonostante la facilità di utilizzazione del servizio, non hanno tempo o voglia di farlo ritenendo le modalità comunque confuse, scomode, dispendiose in termini emozionali e di tempo;

- alcuni hanno paura di compromettere i rapporti relazionali con il medico che avrà in visione il reclamo nominativo;

-  altri ritengono che “quello che è fatto è fatto”, gettandosi così alle spalle  l’evento, percepito perlopiù come una sfortunata evenienza;

- altri ancora seguono altre vie come quella indennitaria (no-fault system) e risarcitoria (claims).

Dallo studio emerge anche una relazione diretta tra gravità dell’evento e probabilità di reclamo ed inoltre che i pazienti anziani e quelli  appartenenti ai  più bassi livelli socio-economici segnalano meno gli inconvenienti patiti. Ciò in similitudine a quanto è emerso dagli studi USA nell’analisi dei claims in termini di propensione a richiedere il risarcimento  di pretesi danni patiti nei trattamenti sanitari. Questa preoccupante disparità di accesso e di utilizzazione del servizio deve ovviamente far riflettere.

Sensivity of routine system for reporting patient safety incidents in an NHS hospital : retrospective patient case note review

Ali Baba-Akbani Sari et al. . BMJ 2007;334;79-;originally published online 15 Dec 2006

 

Trattasi di un recente studio comparativo che verifica la differenze di “performance” nell’intercettare gli incidenti e gli eventi avversi di due sistemi di rilevamento: l’incident reporting (AIRS) in questo caso routinario e la “case note review” (CNR) retrospettiva tipicamente a 2 stadi. Lo studio è stato condotto presso un grosso ospedale inglese nel 2005 e fa riferimento ad un periodo di 5 mesi del 2004. Su  9196 ammissioni di 8 specialità nel periodo di interesse ne sono estratte in modo random  1006. Nel complesso sono stati individuati 324 errori (su 230 pazienti, pari al 23%), di cui 303 (94%) con CNR e 54 (17%) con AIRS mentre 33 (10%) sono stati rilevati con entrambi i sistemi. Se consideriamo gli eventi con danno (n.136 su 110 pazienti pari al 11%) l’AIRS  riduce ulteriormente l’efficacia di rilevamento rispetto al CNR. Gli autori, pur non escludendone l’utilità, concludono che l’AIRS sottostima in generale ed in particolare gli eventi con danno e propongono la revisione  strutturata delle cartelle cliniche come sistema routinario di miglioramento della qualità.

Come commento personale forse fa fatto notare che l’AIRS era routinario e quindi non “sollecitato”  e che i “difetti” sottolineati dell’incident reporting erano già ben noti: in particolare il “reporting bias” ed una specie di “outcome bias” che determinano una selezione non rappresentativa degli incidenti.  Nulla però viene detto relativamente al dispendio di risorse (costi, tempi, personale etc.) che devono essere impiegate per sostenere una chart review routinaria ne delle informazioni che tale sistema è in grado di fornire sul contesto organizzativo in cui gli errori si sono verificati. E’ noto poi che  la revisione retrospettiva delle cartelle cliniche, anche per compilazioni spesso incomplete, rende difficile un giudizio di prevenibilità dell’evento con conseguente sottostima proprio di questa importante frazione di incidenti

 

Surgical adverse outcomes and patients’ evalutation of quality of care: inherent risk or reduced quality

Perla J Mraang-van de Mheen, Nanny van Duijn-Bakker, Job Kievit et al.  Qual Saf Health Care 2007;16:428-433

A cura di Claudio Bianchin

La soddisfazione dei pazienti  rappresenta un rilevante indice di qualità delle cure. E’ noto che l’età (anziani) e la malattia (ASA >3) influiscono negativamente sul gradimento delle cure, ma nulla è stato studiato sui riflessi degli “adverse autcomes”.  Questo studio cerca di verificare se l’opinione sulla qualità delle cure dei pazienti che sono andati incontro a complicanze, durante il ricovero o successivamente,  sia diversa e peggiore rispetto ai pazienti con decorsi normali.

Le complicanze sono state routinariamente registrate dai medici (nell’ambito del “nationwide routine reporting programme”) durante i ricoveri presso il Leiden University Medical Center nel 2003 e 2145 pazienti chirurgici sono stati successivamente intervistati, a distanza di un mese dalla dimissione, sulla eventuale ricorrenza di eventi avversi (sanguinamento, infezione etc.); veniva inoltre richiesto di esprimere un giudizio sulla qualità delle cure nel complesso con eventuali suggerimenti per migliorarla.

Gli adverse outcomes vengono definiti come eventi indesiderati legati alle cure, indipendentemente se causati da errore o meno, che devono aver determinato un esito permanente o quantomeno rese necessarie delle cure. Di rilievo il fatto che con queste modalità l’ “incident reporting”  viene esteso ad un mese dalla dimissione con intercettazione di eventi avversi, pur sempre relativi al ricovero ma manifestatisi successivamente, che altrimenti sarebbero andati persi. Il giudizio sulla qualità delle cure veniva espresso con un  voto da 0 a 10 mentre i suggerimenti venivano raccolti a schema libero e quindi raggruppati in categorie principali (cure mediche, nursing, comunicazione, disponibilità, tempi di attesa ed altri aspetti organizzativi, etc.).

Il 24% (465) dei rispondenti (84%) riportò una complicanza dopo la dimissione mentre il 15% (294)   durante il ricovero. Le più frequenti sono rappresentate da infezioni, disfunzionalità, problemi di rimarginazione della ferita e altri sintomi senza diagnosi (dolore, febbre etc.)

Dai risultati emerge che i pazienti che hanno sperimentato adverse outcomes, più frequentemente di chi ha avuto un decorso senza complicanze, giudicano la qualità delle cure insoddisfacente, lamentano di essere stati dimessi troppo precocemente e ritengono necessari dei miglioramenti nei trattamenti sanitari. Più precisamente sono i pazienti che hanno patito le complicanze dopo la dimissione che manifestano insoddisfazione e ritengono di essere stati dimessi troppo presto, nonostante ciò non venga confermato dalla verifica sulle giornate di degenza. Una ricorrente lamentela è la scarsa comunicazione di informazioni al paziente all’atto della dimissione. Nel complesso solo il 5% si è dichiarato insoddisfatto ma ben il 40% ritengono che alcuni aspetti possono comunque essere migliorati.

Per concludere, sembra che i pazienti si aspettino di essere dimessi solo dopo sia stata esclusa  ogni possibilità di complicanza, per cui l’eventuale manifestarsi di essa viene posta in relazione ad una dimissione percepita come intempestiva. Questo suggerisce che il paziente all’atto della dimissione deve essere esaurientemente preparato a questa eventualità, a come prevenirla, se possibile, e come comportarsi in caso in cui si manifesti. Va inoltre informato che ciò non richiede né giustifica un prolungamento del ricovero ma che può essere gestita ambulatorialmente.

Measures of process defects and waste in surgical pathology as a basis for quality improvement initiatives.

Tita D’Angeklo, Richard J. Zarbo. Am J Clin Pathol 2007;128:423-429.

A cura di Claudio Bianchin

L’articolo descrive gli strumenti e le modalità di intercettazione di errori individuabili in un servizio di anatomia patologica all’interno della fase analitica, dal momento dell’accettazione del campione da prelievo chirurgico fino al rapporto finale di trasmissione (referto).
Tale rilevamento viene percepito come pregiudiziale ad un processo di miglioramento continuo della qualità nell’ambito di un più ambizioso progetto di “zero-defects performances”.
La definizione di difetto rimane ampia per cui va segnalata ogni imperfezione o deficienza nel processare i campioni che richieda un ritardo, una interruzione o la completa ripetizione del lavoro.
Nonostante raramente tali difetti possano tradursi in errori diagnostici e quindi di trattamento dei pazienti, essi rappresentano sempre un indice di inefficienza in quanto causa di sprechi di tempo e di risorse.
Lo strumento di registrazione adottato è una particolare forma di “scheda” di incident reporting rappresentata da un “Visual Data Display” (VDD) dove ogni operatore, anatomo-patologo o tecnico, ha l’opportunità di riportare i difetti intercettati durante il proprio turno di lavoro. Trattasi di un poster, appeso al muro nelle diverse sezioni, dove sono già precodificate le principali difformità e che viene compilato in tempo reale rispetto alla intercettazione dei difetti. Il tutto nell’abituale ambiente confidenziale e non colpevolizzante pur nella presentazione “pubblica” del poster.
Particolarmente frequenti gli errori di identificazione dei campioni e quindi dei relativi pazienti, uno dei problemi più critici in medicina. Tale inconveniente può verificarsi nella trasmissione di questi dati lungo tutto il processo della complicata sequenza di atti prevalentemente manuali, ma in particolare sono segnalati nella trascrizione a mano con penna sui vetrini o nell’attaccare l’etichetta sui vetrini fissati.
Viene sottolineata l’opportunità e la convenienza ad investire in interventi atti ad eliminare questa tipologia di errore di sistema visti e calcolati i costi aggiuntivi in termini di lavoro necessario per correggerli e dei potenziali danni per i pazienti. In particolare, sono state calcolate 159 ore di lavoro aggiuntivo in 3 settimane che su base annua equivalgono ad 1.3 operatore a tempo pieno completamente dedicato a questo compito.
La frequenza dei difetti in generale sembra preoccupante in quanto interessa quasi un caso su tre (494/1690 accettazioni pari al 28%) su un rilevamento durato tre settimane. Riguardano quasi sempre la fase analitica (90%), confermando la loro prevalente insorgenza all’interno del processo in laboratorio piuttosto che esogena. Raramente (8.3%) i difetti “entrano” in laboratorio provenienti dalla fase preanalitica. Ancora più raramente è interessata la fase post-analitica per correzioni di referti sulla base di esami aggiuntivi su ulteriore tessuto, di revisioni secondarie o di richiesta di conferma dei clinici. Tutti questi difetti, anche se raramente comportano errori diagnostici, richiedono spesso correzioni, ripetizioni e ritardi prima che un accettabile risultato possa essere evaso.

 

Clinical impact and frequency of anatomic pathology errors in cancer diagnoses

SS Raab, DM Grzybicki et al. Cancer 2005;104;2205-13.

A cura di Claudio Bianchin

Anche nell’ambito dell’anatomia patologica si ritiene che il primo passo verso il  miglioramento della sicurezza del paziente sia rappresentato dal condividere un comune e standardizzato sistema di reporting degli errori diagnostici. Cambia qualcosa nella tipologia dei dati raccolti e nello strumento, ma la logica è sempre la stessa.

Nel 2002 l’AHRQ ha finanziato 4 strutture negli US che dovevano segnalare gli errori diagnostici condividendone un Web-based database. Lo studio illustra i dati relativi al 2002 con rappresentazione della frequenza degli errori, dei  danni derivati  e delle cause attribuite. Le istituzioni dovevano inoltre, in una seconda fase, dopo analisi delle cause, individuare delle  strategie correttive verificandone successivamente l’efficacia.

Diversi sono le modalità per intercettare egli errori. In questa disciplina il “second review” è una consolidata metodologia per individuare difformità diagnostiche ed in particolare la “cytologic-histologic correlation review” (CH). Viene definita “discrepancy” quando da un campione deriva una diagnosi benigna mentre dall’altro una maligna (invero si considera errore quando vi sono  almeno due step di differenza nel grado di malignità). Il  revisore esprime un secondo parere circa l’eventuale errore nell’esame originario citologico, in quello istologico o in entrambi, attribuendone in caso affermativo anche la causa (di interpretazione e/o campionamento).

Dall’archivio informatico vengono selezionati i prelievi discrepanti di campioni. Questi devono provenire dallo stesso organo ad una distanza temporale di non oltre i  6 mesi. I danni (es. ritardo diagnostico, esami o trattamenti aggiuntivi non necessari ed eventuali eventi avversi da questi derivati, esiti permanenti, morte etc.) sono stati individuati con il clinical record review, attraverso cioè l’esame della documentazione sanitaria, e classificati come da consuetudine in 5 categorie di gravità (no-harm, near miss, minimal harm, moderate harm, severe harm).

I risultati indicano un’ampia variazione tra le 4 istituzioni per tutte le variabili indagate (frequenza, cause, severità dei danni, organi sede di prelievo e fonte di errore). La frequenza delle discrepanze varia tra 1.8-9.4 e tra 4.9-11.8 rispettivamente per i casi ginecologici e non ginecologici. La maggior parte degli errori viene attribuita all’esame citologico rispetto a quello istologico, al campionamento rispetto all’interprtazione. Nel 39-45% dei casi determinano danni prevalentemente minimi-moderati.

Una decina di “errori CH” per istituzione sono stati campionati e fatti esaminare indipendentemente da alcuni patologi revisori. Questi, valutando anche i propri campioni, hanno permesso di quantificare l’aggreement tra osservatori: sia “interobserver” che “intraobsever”. In entrambi i casi la variabilità è risultata elevata con scarso accordo sulla causa e sulla gravità del danno.  La variabilità nella diagnosi di cancro trova ostacolo nel frequente disaccordo degli esperti su comuni standard istologici.

Come in altre discipline emerge quindi uno scarso agreement tra valutatori; rilevante quello tra osservatori nella valutazione della causa dell’errore: errore clinico di campionamento dei tessuti o errata interpretazione del patologo? Certo il problema non è di scarso rilievo sotto il profilo dell’eventuale attribuzione di  responsabilità. E non certo trascurabile il disaccordo sulla gravità del danno attribuibile all’errore, cioè sugli effetti che errori hanno determinato sui pazienti.

 

Relationship between patients complaints and surgical complication

H J Murff, D J France, G B Hickson, JW Pichert et al. Qual. Saf. Health Care 2006;15:13-16.

A cura di Claudio Bianchin

Mentre sembra chiara la relazione tra reclami ed aumento di rischio di richiesta di risarcimento (vedi articolo di Hiskson in rubrica) manca da verificare la relazione tra i primi e gli eventi avversi a cui vanno incontro i pazienti. Nota infatti la povera relazione tra claims e gli errori nei trattamenti sanitari.
Questo studio mira proprio a verificare questa possibile relazione che evidentemente renderebbe il contributo rappresentato dalle segnalazioni dei pazienti molto più utile nell’ottica del risk management più che del claims management. Un regolare reporting degli errori nei trattamenti sanitari da parte dei pazienti può avere un importante ruolo nel migliorare la sicurezza dei pazienti stessi e la qualità delle cure.
Il metodologia della ricerca prevede il linking tra la banca dati dei reclami e quella delle complicazioni nelle attività chirurgiche delle varie specialità. Più in particolare, le sei categorie di reclami, suddivise in 35 sottocategorie, raccolte dall’OPA (Office of Patients Affairs) viene confrontata con le complicanze chirurgiche registrate dal UHC (University Health System Consortium) tramite le SDO, classificate con DRGs e ICD 9 CM (25 complicanze), relative ai 16.713 ricoveri del periodo 1995-1999 presso una un centro medico accademico (Vanderbilt University Medical Center).
I risultati mostrano una modesta ma significativa relazione: reclami sono stati individuati nel 19% dei ricoveri nei quali si è verificata una complicanza mentre in quelli privi di complicanze la percentuale scende al 12% (p = 0.01). I ricoveri con complicanze hanno un odds ratio di 1.74 di essere associati con un reclamo se comparati con i ricoveri senza complicazioni.
I reclami però hanno riguardato solo meno dell’1% dei ricoveri (0.9%) per cui i dati risultano poco indicativi. In altre parole, il contributo dei pazienti in un sistema routinario, spontaneo e passivo, di raccolta delle proteste (unsolicited patient complaints) risulta eccessivamente modesto per cui gli eventi la cui segnalazione risulterebbe utile verrebbe eccessivamente sottostimata. Pertanto, le segnalazioni da parte dei pazienti andrebbero addirittura attivamente sollecitate se vogliamo migliorare la potenziale efficacia ed utilità di tale sistema di rilevamento. Questo sembra evidentemente contrastare con l’abituale atteggiamento delle strutture sanitarie nei confronti delle contestazioni dei fruitori del servizio sanitario.
Lo studio presenta inoltre altri limiti. Le SDO ed i codici ICD 9 CM, come evidenziato da diversi lavori di Iazzoni LI, sono anch’esse poco affidabili come sistema di rilevamento delle cure sotto lo standard. Inoltre, le complicanze individuate non sempre sottendono errori evitabili, cosa che lo studio non va a verificare; il paziente può aver sperimentato un esito sfavorevole non prevenibile ma reclamare indipendentemente dalla reale qualità delle cure erogate, magari solo per i noti problemi di comunicazione. Pertanto, ulteriori ricerche si rendono necessarie per determinare se i reclami possono servire quali markers per esiti insoddisfacenti dei trattamenti sanitari.

Sicurezza del paziente ed errore del paziente

di Stephen Buetow, Glyn Elwyn, Patient safety and patient error , Lancet 2007; 369: 158-61

a cura di Renata De Candido

Anche i pazienti commettono degli errori? Certamente sì, anche se il loro contributo è stato ancora poco discusso.

Cosa significa dire che i pazienti possono fare errori e cosa riguarda questo concetto?

La prevalenza degli errori dei pazienti è sconosciuta, ma utilizzando l’inquadramento di Reason, si può dire che consistono più frequentemente in errori attivi piuttosto che di sistema.

Il concetto corrente di errore è medico-centrico e non riconosce che i pazienti possono favorire, o evitare, gli errori e che le persone possono produrre errori attivi quando vengono a contatto con il sistema sanitario. I diversi tipi di errore non sono mutuamente esclusivi: un errore come ad es. il rifiuto di esami diagnostici, che origina da una interazione medico-paziente, può essere attribuita sia al paziente che al medico.

Si dovrebbe distinguere l’errore del paziente da una scelta o da una decisione del paziente di comportarsi in un certo modo. Una intenzionale non–adesione da parte del paziente (ad es. il rifiuto di una terapia per evitare gli effetti collaterali del farmaco), anche se è vista come errore  da parte dei curanti, può essere una scelta ragionata piuttosto che un errore, anche se non porta al risultato atteso (ad es. sollievo dal dolore).

Il contesto degli errori del paziente

L’errore del paziente dovrebbe essere compreso rispetto alla personalità e al ruolo sociale dei pazienti.

Il moderno consumismo della salute e l’aumento dell’accesso all’informazione sanitaria hanno ridotto la distanza tra le conoscenze dei professionisti e quelle dei pazienti.  Poiché la conoscenza dei pazienti li rende capaci di capire, ragionare e prendere decisioni, essi hanno anche un rischio più elevato di sbagliare.

Un altro contesto di errore si verifica perché il paziente adotta il cosiddetto “ruolo del malato”- cioè le norme comportamentali ritenute appropriate per gli individui ammalati – e ciò può aumentare la propensione a fare errori.

Gli errori dei pazienti possono avere importanti conseguenze: danneggiare il rapporto medico-paziente, compromettere la salute, comportare costi alla famiglia o alla società. Presumibilmente aumenteranno di frequenza per la diminuzione della durata della degenze ospedaliere e per l’aumento delle cure territoriali a lungo termine, della chirurgia ambulatoriale e delle terapie farmacologiche complesse.

Gli errori dei pazienti accadono anche nel contesto di fattori che limitano la loro capacità o possibilità di evitare l’errore. Per es. i pazienti possono avere limitazioni economiche, logistiche o culturali di accesso alle cure.  

Si può intervenire su alcuni fattori di contesto che predispongono i pazienti all’errore, ma non si può intervenire su alcuni errori attivi dovuti alla fallibilità umana senza oltrepassare il limite dell’autonomia personale.

Meccanismi e tipi di errore

La maggior parte degli errori dei pazienti sono conseguenza del loro comportamento. I pazienti spesso trascurano le loro responsabilità relative alle proprie cure, sia per scelta che a causa di altre priorità e costrizioni. Possono dimenticare di assumere una terapia, o non avere le risorse appropriate per accedervi.

Comuni errori di pianificazione sono: la decisione di non accedere alle cure necessarie per migliorare la salute, la decisione di accedere alle cure sbagliate o al livello sbagliato di cure, l’accettazione di un piano di cure che il paziente non può seguire.

I pazienti possono contribuire agli errori indirettamente, influenzando la cultura organizzativa e le caratteristiche del sistema sanitario.  

Se i pazienti hanno una aspettativa non realistica che le cure siano prive della possibilità di errore, possono ridurre il livello di vigilanza, che è un aspetto importante per evitare errori.

Promozione della sicurezza del paziente

Le azioni per la promozione della sicurezza del paziente degli operatori sanitari devono includere la cooperazione con gli utenti per riconoscere, capire e gestire i diversi tipi di errori dei pazienti. Gli operatori sanitari dovrebbero sviluppare programmi per insegnare ai pazienti a partecipare più efficacemente al processo di cura e ad assicurare la propria sicurezza, dando una priorità ai loro bisogni e responsabilità come consumatori e coproduttori di cure sanitarie.

I pazienti possono avere certamente un ruolo come una risorsa in un approccio sistemico per promuovere la sicurezza, focalizzato sulla segnalazione, analisi e gestione del rischio. Con la partecipazione dei pazienti, il sistema sanitario potrebbe essere progettato meglio per evitare e gestire gli errori di qualsiasi fonte, inclusi quelli dei pazienti.

Si dibatte quale sia l’atteggiamento appropriato quando i pazienti dimostrano costantemente comportamenti e atteggiamenti poco responsabili. Gli autori suggeriscono che i pazienti siano moralmente responsabili per gli errori evitabili che commettono o ai quali contribuiscono, ma che gli stessi errori devono essere visti come opportunità per apprendere dall’esperienza e per prevenire il loro ripetersi.

 

Medial Malpractice

DM Studdert, MM Hello TA Brennan NEJM January 15, 2004; 350: 283-292.

A cura di Claudio Bianchin

Trattasi di uno studio molto interessante che dopo aver evidenziato i difetti del “malpractice system” va a rappresentare le varie riforme dell’attuale tort system ed i sistemi alternativi proposti in letteratura fornendo per ognuno puntuale e ricca fonte bibliografica.
I primi sono noti: scarsa relazione tra errori e richieste di risarcimento (“random events”), inaffidabilità delle valutazioni sia stragiudiziali che giudiziali (“lawsuit lottery”) e gli alti costi legali ed amministrativi. I principali obiettivi sociali, quali il ristoro dei pazienti veramente danneggiati e la deterrenza sui comportamenti negligenti, vengono di fatto ampiamente disattesi. Viene poi sottolineato come tale sistema si contrapponga ed ostacoli la diffusione della nuova cultura della sicurezza che focalizza l’attenzione più sul background organizzativo che sulle performance del singolo operatore e vede nell’errore più un’occasione di apprendimento che di punizione (“The two culture: malpractice law and patients safety”). In questo clima, in assenza di una protezione legale, risulta difficile che emergano gli errori da segnalazioni spontanee in quanto possono comportare il rischio di perdere la copertura assicurativa o quantomeno di vedersi innalzare i premi.
Pertanto, in occasione del nuovo aumento di richieste di risarcimento che caratterizza l’ultima crisi del legal system, vengono rinnovate le proposte di cambiamento che vanno da piccoli aggiustamenti del sistema attuale (es. imposizione di tetti ai risarcimenti o agli onorari degli avvocati) a più radicali cambiamenti con sistema alternativi (es. non fault-system, enterprise liability).
Ancora più interessante il fatto che gli autorevoli commenti sui ventilati pregi e difetti delle singole riforme proposte vengono accompagnati da studi che correlano alcune riforme sperimentate sul campo (in alcuni stati) con i principali outcomes attesi, quali la riduzione di frequenza dei claims, la riduzione dei risarcimenti medi e dei premi assicurativi. A tal proposito, si nota come certe riforme centrano un obiettivo ma falliscono gli altri oppure come le esperienze talora abbiano dato risultati inconsistenti o contrastanti. E’ da notare con molto interesse che nonostante la problematica rientri in ambito prevalentemente giuridico la metodologia di approccio non cambi (regression analyses).
Comunque sia, si conclude con una nota pessimista circa la reale possibilità o volontà di sostanziali cambiamenti a causa delle prevedibili resistenze, per cui si prevedono solo parcellari aggiustamenti di dubbia reale efficacia a raggiungere i dichiarati goals e le teoriche funzioni sociali del sistema legale.

Patients Complaints and Malpractice Risk

GB Hickson, CF Federspil, JW Pichert et al. Jama 2002;287:2951-2597


A cura di Claudio Bianchin

C’è relazione tra reclami ed azioni legali per malpractice? Relativamente ad un ampio (n° 645) gruppo multidiciplinare di medici in U.S., dal ‘92 al ’98, sono stati registrati i reclami (“unsolicited patients complaints”) afferenti ai servizi di “customer satisfation” suddivisi nelle abituali categorie della comunicazione, umanizzazione, facilità di accesso, disponibilità, assistenza e trattamento, ambiente e costo. Nello stesso periodo vengono registrati dal servizio di Risk Management non solo i claims, troppo pochi e tendenzialmente “random” rispetto alla qualità cure o comunque determinati da circostanze spesso imprevedibili, ma anche gli eventi per i quali, essendo a rischio di azione legale (es. richiesta della cartella clinica da parte di un legale), viene aperta una posizione (RMFs: “Risk Management Files”) a cui segue un’indagine più o meno approfondita (attività di risk management). Precedenti studi hanno evidenziato che tale rischio non sembra prevedibile in base alle caratteristiche dei pazienti, alla complessità della malattia e neppure dall’esperienza tecnica del medico, ma piuttosto sembra correlabile alla insoddisfazione del paziente relativamente all’abilità del medico di stabilire un rapporto, alla sua disponibilità, all’effettiva comunicazione ed ai trattamenti sanitari rispetto alle aspettative.
Se le richieste risarcitorie sono associate alla insoddisfazione dei pazienti, allora dovrebbe in teoria essere possibile creare un sistema di sorveglianza e monitoraggio che possa essere usato per allertare i medici del loro rischio di essere chiamati in giudizio per “malpractice”.
Si vuole perciò verificare se i sanitari, nominativamente contestati nei reclami od appartenenti a determinate discipline, siano a maggior rischio rispetto agli altri, così da utilizzare i reclami come fattori predittivi delle richieste di risarcimento.
I risultati di questo studio sembrano confermare la relazione tra i due data base se consideriamo tutti i reclami in generale o quelli relativi all’assistenza ed ai trattamenti medici. Questo forse perchè un reclamo su aspetti tecnici può determinare esso stesso la registrazione tra le attività di risk management.
Le donne risultano meno contestate ma va adottata una certa cautela nel concludere che sono più brave sia negli aspetti clinici che interpersonali rispetto ai colleghi maschi. Prevedibile che i chirurghi siano più oggetto di lamentele rispetto ai non chirurghi, sia in termini di reclami che di attività reattive di risk management. Va però precisato che, all’interno della stessa disciplina, alcuni medici mostrano comunque una esperienza di “claims”, così come di “complaints”, peggiore di altri. Emerge inoltre una relazione con il volume di attività, verosimilmente in quanto l’aumento di questa riduce il tempo dedicabile al singolo paziente e l’attenzione verso aspetti sia tecnici che relazionali dell’assistenza, per cui il superamento di un certo limite risulterà controproducente per l’immagine dei sanitari e della struttura a causa del relativo aumento di reclami ed azioni legali,
Da quanto sopra, quindi, non dovremmo meravigliarci se un medico più volte colpito da richieste di risarcimento per danni ai pazienti risulti anche nella banca data dati dei reclami come un medico che “non ascolta”, “non richiama al telefono”, “rude” e che “non mostra rispetto”. Evidente il significato preventivo di questi “fattori di rischio”.
Un limite è forse rappresentato dal fatto che viene considerato ogni RMFs indipendentemente dalla validità di questo. Del resto è noto come questa sia spesso difficile da determinare per la mancanza di accettati standards universali di valutazione. Va detto inoltre che i reclami rappresentano solo ”la punta dell’iceberg” della insoddisfazione dei pazienti.
Indubbiamente lo studio si rivela interessante per l’analogia con quanto già raccolto dai nostri URP e quanto potrebbe emergere, qualora disponibili, dai data base delle richieste di risarcimento.

 

Adverse events and near miss reporting in the NHS

R. Shaw, F. Drewer et al. Qual. Saf. Health Care. 2005;14; 279-283.

A cura di Claudio Bianchin

In questa ricerca la National Patients Safety Agency (NPSA) si pone il problema di verificare se gli incidenti nel NHS vengono segnalati anche al fine di sostenere lo sviluppo di un futuro sistema nazionale di incident reporting in grado di fornire dati sufficienti, per quantità e qualità, a programmare iniziative di miglioramento della sicurezza dei pazienti.
Questo sistema di rilevamento viene già adottato spontaneamente in molte strutture del NHS ma raramente con modalità e metodologie analoghe, informatizzate e standardizzate con campi simili, rendendo così difficile l’aggregazione e la confrontabilità di tutti i dati raccolti.
Poche, quindi, le strutture che, rispettando alcuni minimi requisiti comuni richiesti dai ricercatori, hanno potuto partecipare allo studio. Inoltre, tra tutte le informazioni disponibili, solo per i campi comuni è stata possibile una completa aggregazione e classificazione dei dati.
Tuttavia, a questo studio multicentrico parteciparono 18 “trusts”: 12 ospedaliere per acuti, 3 psichiatriche, 2 di soccorso con ambulanze ed 1 di cure primarie. Queste, nel periodo tra il settembre 2001 e il giugno 2002, segnalarono quasi 30.000 incidenti. Il 95% delle segnalazioni provenirono dagli ospedali per acuti. Le categorie più frequenti sono risultate relative a cadute (41%) ed a errori nella gestione dei farmaci (9%). Il 52% era concentrato su 6 specialità ed in particolare il 28% riguardavano la Medicina Interna e la Geriatria. Si nota un incremento con l’età avanzata. La maggior parte non hanno determinato lesioni rilevanti ai pazienti ma comunque non è proprio trascurabile (< 2%) la quota con danni definiti come “catastrofic” o “major”. Questi in estrema sintesi i risultati.
Pur con i noti limiti di questo sistema di rilevamento, spesso eccessivamente enfatizzati anche nel nostro ambiente scientifico, gli autori ne sottolineano l’utilità e la fattibilità nell’ambito del NHS con la necessità di una fase di aggregazione nazionale. Ritengono inoltre i risultati estensibili anche in altri paesi. La fase di raccolta dei dati risulta però problematica se non viene sviluppato un comune sistema informatizzato di rilevamento degli incidenti per ovvi motivi di standardizzazione dei campi da riempire e dei dati da raccogliere.

Systematic Review: impact of heath information technology on the quality, efficienzy and costs of medical care.

Basit Chaudhry et al. Annals of Internal Medicine 2006 ; 144:742-752

A cura di Claudio Bianchin

Gli esperti considerano Health Information Technology (HIT) una chiave per migliorare l’efficienza e la qualità delle cure. Tuttavia, di per se le tecnologie informatizzate non modificano le malattie o la salute, per cui risulta critico sia come tali strumenti vengono usati sia il contesto in cui vengono implementati.
Questo importante lavoro, finanziato principalmente dalla AHRQ, rappresenta una revisione sistematica delle pubblicazioni (oltre 250) che studiano l’impatto della HIT sulla qualità, l’efficienza ed i costi nei trattamenti sanitari. La ricerca, effettuata attraverso la consultazione delle principali banche dati, si estende ai lavori pubblicati nell’ultimo decennio che sono stati selezionati da due revisori indipendenti. Le tecnologie informatizzate sono prevalentemente rappresentate dalla informatizzazione della cartella clinica e della prescrizione medica CPOE (Computered Physician Order Entry) supportate spesso da sistemi esperti per assistere la presa di decisione del medico.
Invero, da questa revisione sistematica emergono evidenze che dimostrano un effettivo miglioramento della qualità delle cure nell’aumentare l’aderenza a linee guida e protocolli, nel monitoraggio delle condizioni cliniche e nel ridurre gli errori nella gestione dei farmaci o nella loro tempestiva intercettazione. Emergono altresì evidenze di una maggior efficienza per riduzione delle prestazioni inutili ed inappropriate, in particolare degli esami di laboratorio e radiologici. Controverso, invece, rimane il risparmio della risorsa tempo: il PCOE sembra ridurre nel complesso i tempi di cura con riflessi sulla durata dei ricoveri ma altri studi evidenziano un aumento dei tempi a carico dei medici dovuto all’uso del computer con riflessi sulla durata delle visite mentre solo modesto sembra il risparmio dei tempi dedicati dal personale infermieristico alla compilazione della documentazione.
Manca per il momento un supporto sperimentale che fornisca agli erogatori dei servizi dati utili a calcolare i costi iniziali in capitale, quelli di manutenzione e mantenimento ed i tempi di rientro dall’investimento, i riflessi sulla produttività, le necessità di ridisegno dei flussi di lavoro ed i bisogni formativi degli utilizzatori, l’addestramento dei quali risulta fondamentale per il successo dell’implementazione.
Tali sistemi, inoltre, sono stati prevalentemente sviluppati da tempo ed in diversi anni presso poche e particolari strutture accademiche e sono spesso eterogenei tra di loro. Si dubita, pertanto, della loro generalizzabilità, cioè dello loro trasferibilità nella quotidiana routine delle comuni strutture sanitarie. Pochi invece sono i sistemi sviluppati dal commercio. Vi è poi il problema della compatibilità ed interoperabilità con altri sistemi informativi di altri servizi eventualmente preesistenti presso le strutture sanitarie (es. laboratorio, farmacia).
Si coglie l’occasione, in questo contesto, uno studio di Koppel che, a proposito del PCOE, avverte di ben nuovi 22 errori che tale tecnologia informatizzata può agevolare. Controcorrente, a mitigare facili entusiasmi, anche lo studio di Nebeker che avverte come dopo l’utilizzazione estesa delle HIT in una realtà ospedaliera i danni da farmaci si siano rivelati molto più del previsto (52 eventi avversi per 100 ricoveri). Lo studio conclude che anche i migliori sistemi computerizzati sono ancora imperfetti e richiedono una costante sorveglianza per far emergere difetti nascosti che potrebbero indurre danni ai pazienti.

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“To err is human” report and patient safety literature.

H T Stelfax et al. Qual Saf Health Care 2006; 15:174-178.

A cura di Claudio Bianchin

Controversi sono i risultati ottenuti dopo 5 anni dal rapporto dello IOM del 1999 intitolato, appunto, “To err is human: building a safer health System”. Specie se consideriamo l’impatto in termini di effettivo aumento di sicurezza dei pazienti nei trattamenti sanitari, difficile da valutare anche per la mancanza di un monitoraggio sugli eventi avversi esteso a tutta la nazione (U.S.).
Possiamo però ritenere un affidabile indice di impatto l’aumento sia delle pubblicazioni che delle ricerche finanziate da organismi governativi federali su tale argomento.
Questo studio, attraverso la consultazione di banche dati quali MEDLINE per la letteratura e CRISP per le ricerche finanziate, evidenzia che vi è stato un aumento netto rispetto ai cinque anni che precedettero tale rapporto se confrontati con il quinquennio successivo. Tale incremento - che riguarda pressoché tutti i tipi di pubblicazioni, sia ricerche originali (studi qualitativi, case reports/case series, studi di correlazione, studi caso-controllo, studi di coorte, revisioni sistematiche etc.) che editoriali, letters all’editore, linee guida ecc. - certamente è un buon segno di interesse e di impegno sulla prevenzione degli errori nelle cure sanitarie.
Interessante è inoltre notare come tali lavori scientifici nello stesso arco temporale hanno progressivamente virato la loro focalizzazione dalla malpractice al miglioramento della qualità delle cure sanitarie e dalla colpevolizzazione dell’operatore al miglioramento del sistema. Ed è questo nuovo approccio sistemico che rappresenta il vero grande cambiamento che affronta il problema dei danni iatrogeni ai paziente con la cultura organizzativa.
Si ricorda che la vasta eco del rapporto IOM si basava sul numero di decessi attribuibili agli errori medici (44.000 – 98.000) che veniva spettacolarmente paragonata alla caduta di un Jumbo jet al giorno. Pare corretto sottolineare come tali dati siano stati aspramente criticati in quanto imprecisi poichè ricavati da due studi che utilizzavano un diverso numero di revisori. Anche se non recentissimo risulta sicuramente dirimente in proposito la lettura di un articolo di J. Thomas che evidenzia come accettando un diverso livello del “confidence score” (che va da 1 a 6 e stima la probabilità della presenza di EA attribuita dal revisore attraverso lo studio della cartella clinica di un ricovero) e un diverso numero sia di revisori che di “agreement” tra di essi, tali dati possono variare di moltissimo. Diverso è considerare un confidence score di 2 o 4 e accontentarsi di un solo revisore oppure di tre che concordano sulla presenza ed evitabilità di un errore.

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Quality of care is associated with survival in vulnerable older patients
Takahiro Higashi, MD, PhD et al.
Ann Intern Med 2005; IMPROVING PATIENTS CARE; 143:274-281.

A cura di Claudio Bianchin

Anche se può apparire intuitivo non è così scontato che il miglioramento della qualità dell’assistenza sanitaria comporti un prolungamento della vita. O almeno questa relazione non è così facilmente dimostrabile. Pochi gli studi in questo senso.
In questo studio si è cercato di verificare se la qualità delle cure possa effettivamente essere posta in relazione con migliori outcomes in termini di salute. In particolare se determinati indicatori di qualità del processo di erogazione delle cure (“process-of-care quality measurement”) verso un data popolazione siano correlabili all’attesa di vita. Nello specifico si valuta se aumentando la proporzione dei trattamenti ritenuti raccomandati nei confronti dei pazienti (eligibili) ne aumenta anche la sopravvivenza.
La ricerca prende in cosiderazione 372 soggetti di due comunità degli U.S., rappresentati da anziani definiti “vulnerabili” (in base ad un semplice score: Vulnerable Elders Survey-13), dei quali era disponibile la documentazione sanitaria. Essa va a sondare se nel corso dell’anno di riferimento sono stati o meno soddisfatti un ampio set di indicatori di qualità che coprono 22 aree cliniche (es. demenza, malnutrizione, cadute ecc.) e quindi va a verificare se nei successivi tre anni di osservazione la mortalità poteva essere correlabile con essi. Ebbene, dai risultati emerge una robusta associazione tra le migliori cure e la sopravvivenza nella comunità di anziani “vulnerabili” nei 3 anni successivi all’anno di verifica sull’erogazione di trattamenti sanitari raccomandati.
Pur trattandosi di uno studio osservazionale i risultati soddisfano la maggior parte dei fattori (forza e specificità dell’associazione, gradiente dose-risposta, coerenza con altri studi e con le correnti conoscenze, temporalità causa-effetto, plausibilità del meccanismo causale, etc.) per consentire una inferenza causale. Pertanto, in negativo potremmo ragionevolmente ammettere che un’assistenza sanitaria sotto un certo livello di standard è responsabile di una certa quota di morti “non necessarie” tra i pazienti anziani a rischio. Contestualmente sembra giustificato attendere che il miglioramento mirato di certi servizi e del processo di cura verso una popolazione simile possa ridurne la mortalità.

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Systematic review: effects of resident work hours on patients safety.
Kathlyn E. Fletcher, MD, MA; Steven Q. Davis, MD et al.
Ann Intern Med 2004; IMPROVING PATIENTS CARE; 141:851-857

A cura di Claudio Bianchin

E' opinione diffusa che per gli operatori sanitari un maggior carico assistenziale, un aumento del numero di ore di lavoro, la fatica e la deprivazione di ore di sonno, rappresentino dei fattori di rischio per un aumento del verificarsi di eventi avversi con riduzione della sicurezza per il paziente. Ciò trova anche un conforto razionale sulla base di letteratura specialistica che ha evidenziato per es. il legame tra performances e deprivazione del sonno.
Tuttavia, nonostante la relazione possa apparire addirittura ovvia, pare che non emerga con sufficiente evidenza una dimostrazione scientificamente rigorosa di correlazione tra riduzione dell'orario di lavoro e determinati outcomes quali indicatori di sicurezza del paziente e di qualità delle cure. Va considerato, infatti, che un'organizzazione delle turnazioni più favorevole al riposo dei sanitari può andare ad interferire sulla continuità delle cure, altro fattore che intuitivamente va sempre nel verso della sicurezza del paziente.
Lo studio di cui si propone la lettura rappresenta una revisione sistematica di quanto esiste in letteratura sull'argomento. Un'accurata ricerca ha portato all'individuazione iniziale di una quantità numerosissima di articoli; tuttavia, solo sette hanno superato i previsti rigorosi criteri di inclusione,. Purtroppo, questi studi non sono randomizzati, differiscono per disegno e qualità e non prendono in considerazione gli stessi interventi sull'organizzazione del lavoro né gli stessi indicatori. Comunque, in modo contraddittorio e variabile da studio a studio, alcuni "patients safety-related outcomes" migliorano, altri peggiorano, altri ancora rimangono indifferenti alla limitazione dell'orario di lavoro. Si sospetta, inoltre, l'effetto confodente di un "publication bias"" che favorisce gli studi che hanno dimostrato una differenza statisticamente significativa. I risultati vanno interpretati con cautela ma, nel complesso, la loro analisi non consente in effetti di affermare con sicurezza una relazione diretta tra le due variabili tali da giustificare determinati interventi sull'organizzazione del lavoro con la previsione di ottenere, con ragionevole attesa, un significativo miglioramento in termini di sicurezza del paziente e di qualità nell'erogazione delle cure. Per ora, quindi, l'effetto di tali cambiamenti organizzativi sulla sicurezza dei pazienti va ritenunuto ancora non sufficientemente noto. In particolare, vanno ulteriormente studiati i riflessi negativi sulla continuità delle cure. Indubbiamente la promozione e la preservazione di questa presenta dei potenziali benefici per pazienti, medici e sistema delle cure in generale. Ci si deve chiedere se è più sicuro un medico ben riposato che conosce il paziente solo attraverso un report oppure uno stanco che però ha direttamente raccolto l'anamnesi e visitato il paziente. E' evidente che va ricercato un rapporto ottimale di bilanciamento tra fatica e continuità delle cure, nella consapevolezza che entrambi possono avere ripercussioni per la sicurezza dei pazienti. Ma questo si presenta tutt'altro che semplice.

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Persisting Problem in Disclosing Medical Error
John D. Banja, PhD. Harvard Health Policy Review; vol.5, N° 1, Spring 2004, 14-20

A cura di Claudio Bianchin

L'occultamento degli errori che hanno danneggiato i pazienti è categoricamente condannato anche dall' AMA's Code of Medical Ethics (section 8.12) che richiede ai medici di informare i pazienti di tutti i fatti necessari per assicurare la comprensione di cosa sia successo. Tuttavia, il comportamento dei medici nei confronti dei pazienti che hanno subito danni riconducibili ad errori nei trattamenti sanitari è influenzato da varie raccomandazioni spesso difficilmente conciliabili tra loro. Se da un punto di vista etico sono onestamente portati ad informare i pazienti che si è verificato un inconveniente rispetto ai risultati attesi, dall'altro sono indotti a rinunciare ad una sincera ed esauriente comunicazione sui propri possibili incidenti di percorso per paura di riflessi medico-legali ed assicurativi.
L'autore prende in considerazione in particolare quattro comuni problematiche che caratterizzano la comunicazione degli errori ai pazienti.
La prima è rappresentata dall'uso attento delle parole e delle frasi nella comunicazione dell'evento avverso che non prevede l'utilizzo franco ed esplicito di termini quali "errore" o altri che possono implicare "negligence"; questo comporta il rischio di perdere la fiducia del paziente per aver tradito la sua buona fede nascondendogli la completa realtà dei fatti. La JCAHO richiede ai sanitari "clearly explain instances of unanticipated outcomes to the patients and family" (standard RI.1.2.2.) ma non impone l'ammissione di errore e di colpa quando il danno sia riconducibile a negligence.
La seconda si sostanzia nel fatto che il medico si impegna per contratto a non ammettere la propria responsabilità per eventuali danni cagionati dal suo operato, pena la perdita della copertura assicurativa con il rischio di dover attingere dal proprio patrimonio per eventuali inopportune ingerenze nel rapporto tra la Compagnia e danneggiato. Vi è quindi un dovere per clausola di "assistence and cooperation of the insured" nei confronti della Compagnia che copre i medici e la struttura.
Il terzo problema è relativo al fatto che spesso un errore non è in sicura relazione con degli esiti poco soddisfacenti. Manca cioè un evidente "causal role" tra "error" e "poor outcomes". In questi caso il medico si sente in qualche modo giustificato a non comunicare al paziente quanto è successo perché ritenuto poco rilevante. Tuttavia, spesso il paziente interpreta ogni tentativo di occultamento di errori come segno di scarsa professionalità ed affidabilità.
Il quarto aspetto critico è definitorio, relativo al significato di "error" . Innumerevoli sono le definizioni che prevalentemente poggiano sull'involontarietà di un comportamento ritenuto non corretto per esecuzione o pianificazione e di un outcome non atteso considerato insoddisfacente. Il problema centrale di queste definizioni e che non considerano se il verificarsi dell'evento avverso dipende da variabili che possono essere ragionevolmente influenzabili dal medico o invece da fattori al di fuori del suo controllo.
Da una parte si sostiene che i costi finanziari di una sistematica e fedele comunicazione degli errori ai pazienti diventerebbero irragionevolmente alti, dall'altra si ipotizza che questa leale trasparenza possa addirittura venire ricambiata con la riduzione delle richieste e dei costi di risarcimento. Urgono pertanto delle ulteriori ricerche, per ora poche ed empiriche, per fare chiarezza su questi rilevanti aspetti economici. In ogni caso, non svelare al paziente che gli esiti sono peggiori di quanto previsto, verosimilmente per un errore nell'operato medico, comporta il concreto rischio che, qualora lo venga successivamente a sapere, sarà particolarmente portato a contestare il mancato risultato raggiunto sentendosi tradito dalla scarsa onestà ed affidabilità del medico e della struttura sanitaria.

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Garantire la sicurezza di gruppi particolari di pazienti

Joint Commission Perspectives on Patient Safety, January 2004, Volume 4, Issue 1

Traduzione e riassunto a cura di Renata De Candido

(Il testo originale completo è reperibile nel sito: www.jcipatientsafety.org “Ensuring the Safety of Your Special Patient Populations”)

Bambini, adolescenti, anziani e pazienti con deficit cognitivi necessitano di misure di sicurezza addizionali rispetto alla norma. Nella pianificazione di un sistema di sicurezza, si deve tener conto di queste particolari necessità ed individuare i rischi in modo proattivo.

Bambini

Anche se può sembrare un evento raro, il rapimento di un bambino da parte di estranei o di un familiare è un rischio che richiede ogni possibile precauzione. L’accesso dei visitatori al nido o ai reparti pediatrici dovrebbe avvenire da un unico punto; eventuali altri accessi per il personale devono essere sotto continua sorveglianza o chiusi a chiave. Il personale deve identificare ogni individuo considerato sospetto e i genitori devono essere istruiti sulle norme di sicurezza, tra cui non lasciare mai un bambino da solo in una stanza.

Anche se può sembrare evidente, i trattamenti devono essere adatti ai bambini: le attrezzature devono essere concepite per uso pediatrico e il dosaggio dei farmaci deve essere basato sul peso del bambino.

Adolescenti

Il rischio maggiore per gli adolescenti è il suicidio o l’autolesionismo, tra cui i tagli alle braccia sono una pratica comune. Gli adolescenti considerati a rischio di autolesionismo richiedono sia l’osservazione che un ambiente sicuro:

  • nelle aree a cui hanno accesso i pazienti, identificare e togliere gli oggetti pericolosi e testare la resistenza di quelli non rimuovibili;
  • assicurarsi che i pazienti non abbiano accesso ad oggetti taglienti o potenzialmente pericolosi (es. detersivi);
  • testare i meccanismi di chiusura delle porte e degli allarmi.

Un altro rischio è la violenza sessuale, da parte di altri pazienti, del personale o di visitatori. Sarebbe opportuno che gli adolescenti fossero ricoverati separatamente e le precauzioni per i visitatori e il personale dovrebbero essere simili a quelle per i pazienti pediatrici.

Anziani

Sono un gruppo ad alto rischio per le loro limitazioni fisiche, per le condizioni di salute e per  la terapia polifarmacologica.

Il rischio di cadute è comune, per prevenirle: campanello di chiamata facilmente raggiungibile; personale sufficiente per l’assistenza; ambiente che riduca il rischio di cadute (percorso dal letto al bagno privo di ostacoli, pavimento non sdrucciolevole,..).

Un importante problema è la terapia polifarmacologica. Molti anziani hanno diversi medici curanti e assumono più di tre farmaci.  Per evitare interazioni tra farmaci, l’anamnesi all’ammissione deve essere molto accurata e includere l’elenco completo dei medicinali assunti, compresi quelli non prescritti dai medici, come analgesici, terapie alternative, vitamine, prodotti di erboristeria, ecc.

Persone con deficit cognitivi

Includiamo in questo gruppo situazioni molto diversificate: pazienti con disturbi mentali, anziani affetti da demenza, pazienti con deficit temporanei causati da anestesia, farmaci o altre ragioni mediche.  La valutazione delle capacità cognitive è fondamentale per ridurre i rischi.

I pazienti possono essere incapaci di seguire le istruzioni relativamente a diete, attività, auto-medicazione e visite di controllo. I bisogni relativi alla sicurezza devono far parte della pianificazione del processo di cura. Se si tratta di pazienti non ricoverati, la valutazione deve includere le persone di supporto (familiari, vicini, badanti, ecc.):

  • il paziente vive solo o ha qualcuno che lo aiuta?
  • è/sono in grado di seguire le istruzioni?
  • può/possono capire le procedure di sicurezza (es. non fumare durante ossigenoterapia)?

I pazienti con demenza frequentemente girovagano. Misure di sicurezza possono essere:

  • farli stazionare in stanze vicini ai posti di lavoro degli infermieri;
  • equipaggiarli di braccialetti elettronici che fanno scattare un allarme se il paziente si allontana dal reparto;
  • prendere misure di sicurezza adeguate per porte e finestre.

I pazienti non ricoverati, sottoposti a procedure diagnostiche o terapeutiche che alterano lo stato di coscienza, devono essere informati sulle terapie e i controlli da effettuare a domicilio prima di essere sottoposti ad anestesia o sedazione.  Prima della dimissione è importante valutare il livello di comprensione, anche se il paziente sembra in grado di rispondere.

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A preliminary taxonomy of medical errors in family practice.

SM Dovey et al.

Qual Saf Heath Care 2002;11:233-238.

A cura di Claudio Bianchin

Nonostante nel territorio trovino luogo la maggior parte dei rapporti medico-paziente, per ora l’attenzione per la gestione del rischio clinico non si è molto focalizzata sulle cure primarie trovando prevalente applicazione in ambito ospedaliero; tuttavia,  appare evidente come questo approccio metodologico possa rappresentare un valido aiuto nel miglioramento della qualità dell’assistenza anche nelle cure primarie e quindi nella Medicina Generale del territorio. Ma le conoscenze e le esperienze sviluppate in ambito ospedaliero non sono così direttamente trasferibili nelle cure primarie in quanto realtà  prevedibilmente diverse per molti aspetti, tra cui verosimilmente le condizioni di rischio di errore.  La ricerca della sicurezza del paziente al di fuori dell’ospedale rappresenta indubbiamente un’importante opportunità.

Indubbiamente in questo campo specifico sono necessarie urgenti ricerche epidemiologiche  per identificare le caratteristiche dei pazienti che più frequentemente patiscono dei danni nonché le tipologie dei relativi errori  e delle (con) cause che li sottendono. In particolare risulta rilevante, quale fase essenziale, individuare una classificazione dei “medical errors” che  si adatti alla realtà del medico di medicina generale, essendo prevedibile che la pronta trasferibilità dell’esperienza ospedaliera  sul territorio non sia possibile.

In tale contesto, questo articolo risulta un’importante esperienza di riferimento in quanto cerca di individuare quelle condizioni, situazioni, ambiti di rischio più ricorrenti e tipiche della prassi  del medico di famiglia. Essa rappresenta un’analisi qualitativa mirata ad identificare le categorie di errori, il contesto in cui si sono verificati e le loro conseguenze riportate durante l’attività del “family physician”, figura non certo sovrapponibile al nostro medico di medicina generale ma che comunque può rappresentare il più vicino utile riferimento.

Trattasi di uno studio randomizzato e controllato  di self-reporting utilizzando la via informatica o cartacea e che ha coinvolto 42 family physician in U.S.. Questi hanno inviato 344 reports relativi ad errori  osservati da loro stessi nel periodo di 20 settimane (9 maggio – 26 sett. 2000) durante la loro routinaria pratica clinica, ovunque svolta: in ambulatorio, a domicilio, in ospedale, in casa di riposo ecc.

Interessante notare come la grande maggioranza di questi erano relativi a disfunzioni di sistema nel processo complessivo di erogazione dell’assistenza (“healthcare system dysfunction”) mentre solo una minoranza erano attribuibili esclusivamente ad errori di esperienza o conoscenza del singolo medico. Le carenze di carattere amministrativo (“administrative failure”)  prevalgono nettamente  sugli  errori di diagnosi o di trattamento. Insomma, sembrano prevalere problematiche generali di tipo organizzativo- gestionale su quelle di più strettamente esecutive e di performance.

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